La “solita” guerra dell’occupazione

Anne Paq/Activestills.org

Da Communia Network

La strada per la Palestina non è né lontana né vicina, è distante quanto una rivoluzione
Naji al-Ali

In questi giorni il popolo palestinese nella Striscia di Gaza sta subendo il terzo attacco di massa in cinque anni da parte dell’occupazione sionista con un bilancio, assolutamente provvisorio ed in continuo aumento, di oltre 500 morti, più di 2.000 i feriti e più di 1.800 edifici distrutti.
Un attacco che si inscrive in un’operazione repressiva più ampia iniziata più di un mese fa in West Bank che ha portato all’arresto di quasi mille persone e a una decina di martiri, per lo più giovanissimi, il tutto giustificato con le operazioni di ricerca dei tre coloni catturati lo scorso 12 giugno vicino alla colonia di Gush Etzion.
Ovviamente la cattura e l’esecuzione dei tre giovani occupanti non è altro che l’ennesima scusa che i politici sionisti adducono per dare una parvenza di legittimità alle proprie operazioni repressive: ricordiamo l’offensiva del 2012 iniziata con l’omicidio di Ahmed Al-Ja’abari, leader dell’ala militare di Hamas, senza che vi fosse stata alcuna operazione precedente da parte della Resistenza che potesse giustificare (nella perversa logica che vorrebbe gli occupati proni agli occupanti) una settimana di bombardamenti e che portò all’uccisione di 200 persone e al ferimento di altre 1.000.
In questi giorni l’entità sionista non sta attuando né una rappresaglia né una guerra, sta invece mettendo in scena un orribile film dove gli stuntmen e la finzione vengono sostituiti da persone e spargimenti di sangue reali e che mostra a noi europei le stesse identiche pratiche di occupazione coloniale che abbiamo attuato fino al secondo dopoguerra in Asia, in Africa e nel continente americano.

Sovvertire le narrazioni tossiche
L’aver dimenticato (o l’aver voluto dimenticare) la natura coloniale dell’entità sionista, l’ultima colonizzazione europea dell’età contemporanea, ha dato adito ad una lunga sequela di narrazioni tossiche tese a mistificare e a spostare l’asse del ragionamento sugli avvenimenti in corso in Medio Oriente.
In prima fila troviamo l’incommentabile faziosità dei media ufficiali, sempre pronti a rilanciare le veline delle forze d’occupazione e a presentare l’aggressione in corso come una faida tra i “terroristi” di Hamas ed “Israele”, dando un quadro che nella peggiore delle ipotesi è una guerra tra barbarie religiose mentre nella “migliore” vede i poveri palestinesi come ostaggi di una forza oscurantista che li rende bersaglio della “legittima” reazione sionista. Tutto ciò si manifesta con le decine di corrispondenze da Ashqelon “vittima” dei razzi della Resistenza, amplificati dalla visita che la nostra ministra degli esteri ha compiuto insieme ad Avigdor Lieberman, suo omologo sionista ed esponente di spicco della peggiore destra razzista.
A tutto ciò noi rispondiamo che i palestinesi non sono ostaggio di nessuno: tutte le fazioni della Resistenza sono impegnate a rispondere all’aggressione condotta dagli occupanti. Una risposta legittima sancita tra l’altro anche dal diritto internazionale e che vede il movimento di resistenza islamico in prima fila non come forza soverchiante della volontà popolare bensì come partito di maggioranza scelto dagli stessi palestinesi nelle ultime elezioni legittime che gli sono state concesse, per quanto chi scrive ne sia politicamente distante.

Altre narrazioni tossiche vengono poi propinate da parte della sinistra italiana, troppo spesso impegnata ad affrontare la questione palestinese nel suo aspetto umanitario e quasi mai in quello politico. Ciò ha portato negli anni a clamorose distorsioni come il sostegno all’economia neocoloniale delle ONG, alle pratiche di normalizzazione con l’occupazione e ad un concetto irreale ed astratto di pace e non violenza che molto spesso portano a prese di posizione “equidistanti” tese a condannare sia i massacri sionisti che le operazioni della resistenza.
Chi scrive ricorda che in Palestina non è in atto una guerra bensì un’occupazione coloniale, per cui mettere sullo stesso piano gli oppressori e gli oppressi in quanto “parti belligeranti” è un servizio gratuito svolto nei confronti della propaganda sionista.
Infine le ultime narrazioni tossiche, forse le peggiori, sono quelle propagandate dall’Autorità Nazionale Palestinese e dal suo presidente Mahmoud Abbas, impegnato da anni in un percorso di legittimazione dell’occupazione e di repressione delle varie forme di resistenza.
Negli scorsi mesi, durante la proclamazione del governo di “unità nazionale”, Abu Mazen ha fatto due gravi dichiarazioni: la volontà di proseguire con i “colloqui di pace” con l’occupante sionista e di voler mantenere i protocolli di cooperazione tra le forze di sicurezza dell’ANP e le forze militari dell’occupazione. Dichiarazione reiterate il mese scorso mentre la polizia sionista metteva a ferro e fuoco la “sua” West Bank arrestando ed uccidendo il “suo” popolo.
La repressione della Resistenza, la legittimazione di “Israele” come stato ebraico e lo spostamento del focus della lotta palestinese da una questione di diritti ad una questione di confini non è altro che l’accettazione dello status quo per i milioni di palestinesi che vivono nei territori occupati nel ’67, nel ’48 e in Diaspora.
Ovviamente chi segue la lotta di liberazione Palestinese non si stupisce: negli anni Abbas è stato prodigo di dichiarazioni infelici, tra cui l’esplicita rinuncia al proprio diritto al ritorno e l’ente che presiede non è altro che un bantustan gentilmente concesso dall’occupazione. Ciò non toglie che i media, la comunità internazionale e, purtroppo, molti attivisti, spesso in buona fede, lo considerano un leader legittimo, diretto successore del più smaliziato Arafat, le cui dichiarazioni influenzano l’opinione pubblica. O meglio quel poco di spazio che l’opinione pubblica lascia ai palestinesi.
Io preferisco opporgli ciò che disse uno dei maggiori intellettuali palestinesi, Edward Sa’id: “Nessun negoziato è meglio di infinite concessioni che servono semplicemente a prolungare l’occupazione”.

Solidarizzare con il popolo palestinese senza se e senza ma
Noi occidentali come possiamo portare la nostra solidarietà al popolo palestinese senza cascare nella trappola delle narrazioni tossiche?
Il passo più immediato è l’adesione alla campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro l’entità sionista lanciata nel 2005 dalla quasi totalità delle associazioni, sindacati ed organizzazioni politiche palestinesi.
Sebbene il colonialismo europeo si sia sempre giustificato con motivazioni religiose o con fantomatici “fardelli civilizzatori” la sua base è sempre stata lo sfruttamento economico delle risorse e delle popolazioni colonizzate e l’occupazione sionista della Palestina non è da meno.
Colpire i numerosi interessi economici, culturali ed accademici che i sionisti hanno in giro per il mondo, oltre ad essere un dovere morale, è anche un modo diretto per intaccare le ragioni profonde del colonialismo in Palestina.
Ovviamente non si parla solo dei prodotti provenienti dalle colonie illegali secondo il diritto internazionale, ma dell’economia sionista nel suo complesso. In primis perché tutta “Israele” è una colonia, senza fare distinzione tra Tel Aviv e gli insediamenti in West Bank, in secondo luogo perché l’economia dei territori occupati nel 1948 è strettamente interconnessa con quella dei territori occupati a partire dal 1967.
Il passo successivo è il sostegno alla resistenza palestinese in ogni sua forma, senza cadere nella sterile dicotomia violenza/non violenza. La resistenza all’occupazione con ogni mezzo non è solo un diritto riconosciuto internazionalmente ma è soprattutto un diritto collettivo dei popoli che aspirano alla liberazione e all’autodeterminazione contro chi occupa, spesso con forza soverchiante, la propria terra.

In passato popoli piccoli (dal punto di vista della forza economica o dei sostegni internazionali) hanno tenuto sotto scacco e cacciato via le potentissime metropoli imperialiste con varie forme di resistenza che comprendevano anche e soprattutto la lotta armata. Il processo di decolonizzazione ha visto anche il grande sostegno da parte della sinistra rivoluzionaria europea senza che questa accettasse la propaganda demonizzatrice messa in atto dalle potenze coloniali.
È il caso, tra gli altri, della lotta di liberazione del popolo vietnamita e di quello algerino, due esempi ancora molto amati dalla sinistra italiana che si è sempre guardata dal chiedere ad Ho Chi Minh o a Ben Bella di deporre le armi. Oggi forse la sinistra dovrebbe accantonare per un momento gli scritti riveduti e corretti di Ghandi e del reverendo King per rileggersi Fanon.
Infine noi rivoluzionari italiani dobbiamo sempre ricordare che la lotta di liberazione palestinese non chiede l’assegnazione di uno stato, l’invio di medicinali e di altri beni materiali ma esige diritti.
Sostenere la formula “due popoli per due stati” è fuorviante: esiste un solo popolo, quello palestinese, tenuto sotto occupazione da un insieme di coloni, indubbiamente variegato ma prevalentemente europeo. Sostenere la creazione di uno stato “ebraico” e di uno palestinese significherebbe da una parte appoggiare una concezione teocratica dello stato che sancirebbe definitivamente lo stato di inferiorità legale di tutti coloro che ebrei non sono, dall’altra negherebbe a più di 5 milioni di profughi (in Palestina e in Diaspora) il legittimo diritto a ritornare alle proprie case da cui sono stati cacciati 66 anni fa.
Senza il diritto alla resistenza, all’autodeterminazione e al ritorno nelle terre occupate nel 1948 non ci sarà né giustizia né la fine dell’occupazione sionista.
Senza sostenere questi diritti non faremo altro che contribuire al prolungamento delle sofferenze del popolo palestinese, proprio come stiamo assistendo in questi giorni nella Striscia di Gaza.

Con la resistenza palestinese
Fino alla liberazione e al ritorno

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