Il tema del femminicidio negli ultimi tempi ha riscosso molto successo.Trasmissioni, campagne pubblicitarie e addirittura leggi che si sono schierate a tutela della donna, del suo corpo e della sua libertà. Ma cosa è cambiato? Quello che è successo per le strade di Albano Laziale qualche settimana fa e quello che accade ogni giorno, purtroppo, tra le mura domestiche, nei posti di lavoro, per strada, in realtà non fanno altro che smentire tale “ventata di civilizzazione”. Perché?
Analizzando ciò che è stato fatto, non rimane che un paio di iniziative in piazza colorate di rosa, partecipate perlopiù da donne che hanno richiamato a suon di canzonette la libertà femminile, una legge che più che rendere severe le pene sul femminicidio e promuovere una campagna di sensibilizzazione, nascondeva pesanti pene su altri temi, come quello dei No Tav, e infine spot pubblicitari dove una donna abbracciata ad un uomo veniva incitata a non fidarsi e a imparare a difendersi. Ma dobbiamo davvero difenderci? Non lo crediamo. Il punto non è imparare a diventare aggressive o diffidenti, non è necessario fare corsi di autodifesa o comprare spray anti-aggressione.
Ciò che va fatto è educare. Educare gli uomini. Tutte queste campagne non fanno altro che relegare il problema del femminicidio alle donne, come se fosse l’ennesimo problema da affrontare. E l’uomo? Quale è il suo ruolo? Il femminicidio non è roba da donne. Se un uomo decide di porre fine alla vita di una donna, non è un problema “della donna” che non l’ha denunciato. Il problema è che dietro quell’atto violento non viene scorta la visione patriarcale, sessista e machista che lo ha mosso, che ha arrogato a quell’uomo il diritto di decidere sulla vita di quella donna.
Nel femminicidio raccontato da queste campagne non è vista la concezione, nemmeno troppo nascosta, della donna intesa come oggetto, come un possesso su cui l’uomo può decretare vita o morte. Ciò che viene promosso è la difesa, l’attacco e la denuncia verso gli uomini. Non crediamo che queste siano pratiche sbagliate, ma che siano insufficienti. Dove è l’uomo in queste campagne? Un’immagine con il viso coperto dovrebbe insegnare alla categoria maschile a non essere violenti? Continuare ad affrontare il problema solo con donne e rivolgendosi quasi esclusivamente a loro, dovrebbe promuovere nel genere maschile qualche momento di riflessione?
A queste, poi, si aggiungono le risposte che vengono date dallo stato che, in realtà, sembrano legarsi in modo indissolubile alle norme securitarie e repressive. Non basta tappezzare la città di impianti di videosorveglianza o di pattuglie delle forze dell’ordine, perché in realtà molto spesso le violenze vengono perpetrate in pieno giorno. Ne è la dimostrazione ciò che è accaduto lo scorso 30 settembre ad Albano Laziale, dove un carabiniere ha ucciso la moglie, proprio fuori dalla scuola dove la donna insegnava. L’uomo ha sparato alla donna e dopo ha rivolto la pistola contro se stesso.Non c’è bisogno di alcuna trasmissione televisiva per capire che si tratta dell’ennesimo caso di femminicidio, ma allo stesso tempo crediamo sia importante sottolineare come molti dei casi di violenza provengano da ambienti legati al mondo delle forze dell’ordine. Tanto per citare uno dei casi più recenti, il processo per stupro e lesioni del militare Francesco Tuccia a L’Aquila.
Sicuramente viviamo in un mondo pensato dagli uomini e per gli uomini, i quali molto spesso si sono arrogati il diritto e il potere di scegliere sulle nostre vite, ma non possiamo ignorare che tutt’ora esistono ambienti, come le caserme, CIE e carceri in cui la cultura del machismo, la propensione alla violenza e il sentimento di potere vengono portati all’estremo.Crediamo che il femminicidio non sia una “questione femminile”, che non si debbano caricare le donne della responsabilità degli atti violenti degli uomini e che se un uomo picchia o uccide o violenta, non sia responsabilità della donna perché non ha saputo difendersi.
Questa logica della difesa, in realtà, non fa altro che continuare a spostare l’attenzione dal problema di fondo, ovvero che viviamo una società patriarcale dove le violenze e le limitazioni si subiscono a 360 gradi. Basti pensare alle difficoltà a farsi valere sul posto di lavoro, alle difficoltà a uscire dal ruolo di “cura” che ci è stato cucito addosso, alla difficoltà ad amare chiunque e in qualunque modo senza esser ghettizzate. Ciò che sta avvenendo in Italia negli ultimi anni è un’operazione di marcia indietro: sono sempre più le ragazze sotto i diciotto anni che rimangono incinta, così come le donne che, in tempi di crisi, decidono di lasciare il lavoro per dedicarsi alla famiglia. Stando agli ultimi dati Istat sembra che la società italiana stia tornando, ammesso che ve ne sia mai uscita, a un modello sociale e familiare anni 50 dove il ritorno ai “valori” tradizionali sembra la risposta più diretta all’incertezza e instabilità che il modello economico vigente ha prodotto.
Gli effetti di tale sentimento retrogrado non sono neanche così nascosti, basti pensare alle critiche e alla “sommossa” creata sulla questione dell’educazione alla parità di genere a scuola o ai cipigli infuocati delle madri quando si era proposto di fare la “festa del genitore”, al posto della stantia e anacronistica “festa della mamma o del papà”. Ovviamente risposte del genere sono dettate solo dall’ignoranza non solo dei temi contro cui i benpensanti tanto si accaniscono, ma anche di un ignoranza sociale. E il risultato qual è? Insegnare alle donne a esser brave massaie e ad apprezzare il ruolo di suppellettili previsto per loro dalla società e agli uomini a esercitare il ruolo di potere nel lavoro così come nella famiglia. Questa non è violenza?
Crediamo che la lotta alla violenza di genere debba superare gli stereotipi, la cultura della paura e della sicurezza cercata con le armi e soprattutto debba de-costruire un modello sociale ìmpari, fondato su ruoli stereotipati, in grado di produrre solamente diseguaglianza e violenza.
27/01: Presentazione di “Rivoluzioni Violate”
Archivi
Categorie