COP21: CAMBIARE IL SISTEMA, NON IL CLIMA!

C21 La 21esima conferenza sul clima si presenta in uno scenario piuttosto sfavorevole da diversi punti di vista. In primis si trova a fronteggiare delle sfide molto ardue, come mantenere la soglia del riscaldamento globale sotto i 2°c, portare le nuove tecnologie “ecosostenibili” anche ai paesi in via di sviluppo, e altri obiettivi da cui siamo molto lontani. Dovrebbe poi formulare un accordo che per una volta sia veramente inteso come sovranazionale, vista l’urgenza di dover cominciare quantomeno a prevedere grosse spese anche nel futuro. In ultimo, si trova malauguratamente catapultata in uno stato d’urgenza fin troppo incisivo.
Per renderci conto della portata dei cambiamenti climatici bastano in realtà pochi dati: da 160 anni fa a oggi (quindi dall’era preindustriale, diciamo dal 1850) il clima globale ha subito un incremento di circa 2°c, e nelle previsioni peggiori si attesterebbe intorno ai 5° a fine secolo; questo provocherebbe l’innalzamento delle acque che sommergerebbe terre che ospitano un totale di quasi un miliardo di abitanti, oltre a dei cambiamenti climatici che variano a seconda delle zone del pianeta (ad esempio in medio oriente si acuirebbero le già presenti ondate di calore, che ridurrebbero le già scarse risorse idriche, mentre in Asia si acuirebbe il rischio di piogge torrenziali). Argomento nuovo e scottante quello delle migrazioni climatiche, viene introdotto alla vigilia dell’incontro da un rapporto che segnala come negli ultimi sei anni ci siano stati ben 157 milioni di casi di migrazione da imputare ai cambiamenti climatici.
Chiaramente ci sono un’infinità di fattori che giocano ruoli di diversa intensità nella determinazione del processo di riscaldamento globale, ma gli scogli più grossi rimangono il carbone e i gas serra, almeno secondo i potenti. Non vengono toccate come tematiche né l’estrazione petrolifera e mineraria né tantomeno quella della deforestazione, o del fuoco che imperversa in tutti i boschi indonesiani a causa della produzione di olio di palma, così come ovviamente non vengono toccate le modalità di produzione che generano l’inquinamento (lasciando così spazio ad orrori tipo il mercato del “diritto all’inquinare” che ha preso piede dopo il protocollo di Kyoto). Le tematiche che invece sono toccate aprono scenari molto inquietanti, delineando di primo impatto una divisione tra paesi ricchi ed emergenti, e successivamente un forte scarto tra paesi occidentali e non. A livello politico dunque il summit è un’occasione per parlare di varie questioni, innanzitutto per gestire anche dinamiche totalmente estranee a quelle della conferenza (come l’incontro tra Putin e Erdogan che verte sull’aereo russo abbattuto dalla Turchia al confine con la Syria), ma soprattutto per saggiare il terreno e cominciare a rapportarsi in qualche modo alle potenze non occidentali (che ormai chiamare emergenti risulta piuttosto irrisorio). In questo ambito, se l’India si mostra riluttante non volendo impegnarsi a ridurre l’uso del carbone, la Cina sembra più incline a ricevere tutti gli incentivi che gli occidentali stanno per stanziare, i quali, giocano il ruolo degli “inquinatori pentiti”.
Si cerca dunque di promuovere un accordo che agisca in molte direzioni, che però, di fatto, è una farsa. E’ una farsa innanzitutto per le questioni omesse, poi per i tempi biblici (l’accordo si firmerà nel 2016, e si attuerà in minima parte dal 2020 ma soprattutto nel 2030, per avere risultati entro il 2050), ma soprattutto perché l’accordo non è vincolante. Non avendo valore legale come Kyoto e Copenaghen, è prevedibile che questo trattato faccia la stessa misera fine. Infatti se fino a pochi anni fa c’era una forte propensione agli accordi sovranazionali, oggi si cerca sempre di più un riaccentramento sui parlamenti nazionali, e si utilizza una formula piuttosto preoccupante che è quella di non rispettare un accordo e trarne semplicemente una riforma che varia a seconda della specificità nazionale (è il caso dei precedenti accordi che riguardavano il clima, ma anche di trattati come quello di Lisbona sulla cittadinanza europea).
L’ennesima presa in giro è quella che raccontano le membership alte che partecipano a questa conferenza, con l’Italia in prima linea. Renzi e simili infatti ostentano di aver regolamentato le emissioni dannose. A conti fatti ci sono stati dei progressi rispetto a una decina/quindicina di anni fa, anche se qui si apre un capitolo molto spinoso: i progressi sono stati raggiunti sulle spalle dei lavoratori, cioè a forza di fallimenti di aziende e di chiusura di fabbriche (ovviamente non voluti). Non solo, i trattati stipulati a riguardo ponevano traguardi mai raggiunti anche considerando risultati di anni e anni dopo rispetto alla scadenza. Quanto detto ci serve da metro di giudizio, prendendo un esempio sappiamo che secondo il protocollo di Kyoto (1997) l’Italia avrebbe dovuto ridurre del 6% le emissioni di CO2 nel periodo tra il 2008 e il 2012; è il 2015, l’Italia ha ridotto le suddette emissioni del 4,6%, ma che sarebbe successo se il nostro PIL invece di diminuire del 1,5% fosse aumentato del 1,5%?
La Francia per conto suo sembra essere una delle nazioni più virtuose rispetto al carbone e ai GES (gaz à effet serre), anche se come si capisce già intuitivamente ciò ha un contrappeso piuttosto pesante. Infatti il virtuosismo della Francia dipende dalla scarsa necessità di centrali a carbone viste la ventina a reattore nucleare, che oltre a rifiuti tossici e tutti i problemi che possiamo immaginare stanno creando un problema per il prelievo d’acqua per il raffreddamento (che non risulta un gran problema per il prelievo di acqua marina ma più che altro per il Rodano e la Loira, che raffreddano 14 reattori l’uno). Oltre alle centrali nucleari le devastazioni territoriali meritano uno tra i primi posti in Europa: le famose ZAD (zone d’aménagement différé) sono l’esempio più lampante, alcuni ricorderanno quella del Barrage de Sivens (vicino Tolosa), o dell’aereoporto Notre-Dames (vicino Rennes) per le forti contestazioni che hanno fatto registrare. Proprio da questi territori in lotta nasce la mobilitazione (l’esempio più lampante è la “convergenza dei convogli delle ZAD su Parigi, dove i movimenti usano la sigla ZAD per acronimo di Zone A Defendre) e l’appello (https://paris-luttes.info/appel-depuis-les-zads-et-autres-3702) per un forum dei movimenti ambientali che non sembra però aver ossigeno per respirare. Strumentalizzando in malo modo gli attentati, il governo d’oltralpe ha fatto intendere chiaramente che “non è aria” di alzare un solo dito, di dire una sola parola sulla passerella che gli serve per dimostrarsi forti contro il terrorismo, che dunque cerca di legittimare ancor di più i bombardamenti e il rinforzo delle truppe in Syria.
Il COP21 stesso dunque si svolge in un clima del tutto teso data la forzatura del governo a non rinviare, né annullare, né spostare l’evento. Lo stato d’urgenza dichiarato dal governo Hollande durerà per tre mesi (si vuole perfino inserire lo stato d’urgenza nella Costituzione), ma l’incontro si sta svolgendo a distanza veramente ravvicinata dagli attentati, avvenuti solamente lo scorso 13 novembre. Già da qui emerge in maniera evidente una problematica cruciale, che funziona da filo-conduttore con molte delle questioni che imperversano nella capitale francese in queste settimane: il governo è un apparato che non ha nulla a che fare con i cittadini, ma non solo, nemmeno con lo stato. Già perché in questi casi, nei “casi di urgenza”, climatica o antiterrorista che sia, è l’apparato statale ad agire, non tanto il governo. Lo spiega bene Hollande in un’intervista del 2009 rilasciata a “Le Journal” che sta facendo il giro sui social network solamente anni dopo, in cui chiarisce implicitamente che lo stato ha il compito ultimo di mantenere l’ ordine. E’ proprio qui che capiamo come lo stato agisce: quando si tratta di urgenza si dichiarano stati di controllo poliziesco, in cui il fine ultimo principe è mantenere l’ ordine sociale, dunque al proprio interno, più che all’esterno. E’ proprio così che lo stato francese ha agito in questi giorni. Dalle perquisizioni e fermi preventivi, ai trecento fermati alla manifestazione del 29 Novembre, per arrivare alle denunce e ai processi che ne sono scaturiti, sembra quasi che lo stato d’urgenza serva più a mantenere lo stato di polizia che a lottare contro il terrorismo. In poche parole mettono in pericolo i cittadini e li avvisano di non uscire di casa (o consigliano comunque di farlo a piedi) dopo aver scaturito essi stessi il motivo della preoccupazione, e poi danno il benservito ai manifestanti perché a quel punto diventano loro che mettono in pericolo l’intera città.
Ed è dunque proprio a questo punto che si annoda la suddetta problematica cruciale. La conferenza la fanno loro, guerra la dichiarano loro, chiusi nelle loro stanze blindate, mentre a Parigi continua il terrorismo psicologico sui cittadini, invitati a non uscire, a non frequentare punti di ritrovo affollati, addirittura si esorta la popolazione a non prendere mezzi pubblici paradossalmente resi gratuiti. A pochi giorni dagli attentati, insomma, Hollande ci tiene a dimostrare ancora quanto la democrazia sia una mera illusione, come nessun cittadino o organizzazione abbia veramente voce in capitolo quando si tratta di temi urgenti. Come la democrazia muore in ogni loro modalità politica, sempre tecnicista, politicista, elitaria nonché autoritaria.
Esortiamo dunque qualunque persona e/o organizzazione a cercare di dare battaglia a quest’ipocrisia, cercando di diffondere il materiale contro informativo (reperibile da varie fonti, noi segnaliamo il sito www.anticop21.org), di diffondere dissenso nonché cercando di impedire lo svolgimento della conferenza.

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