LA COSIDDETTA “CRISI DEI RIFUGIATI” IN DIECI PUNTI

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di Miguel Urban – Eurodeputato di Podemos

“Non ci piace che ci chamino rifugiati. Tra di noi preferiamo chiamarci appena arrivati o immigrati”. Così iniziava il testo di Hannah Arendt, “Noi i rifugiati”, scritto all’arrivo negli Stati Uniti dopo la fuga dai campi di concentramento nazisti. Poco più di settant’anni dopo il Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha avvertito i potenziali migranti economici “clandestini” di non tentare di arrivare in Europa perché nessuno Stato membro d’ora in avanti si presterà ad essere paese di transito.

Queste parole non le pronuncia uno qualunque, ma sono dichiarazioni di uno dei massimi responsabili di questa Unione Europea, e non le dice in un momento qualsiasi, ma pochi giorni prima della firma dell’accordo della vergogna tra UE e Turchia per esternalizzare la frontiera europea ed espellere i rifugiati. Parole che dimostrano ancora una volta l’assoluta assenza di soluzioni, il totale abbandono dei compiti e delle responsabilità da parte di un progetto europeo che fa acqua da tutte le parti.
Una Unione Europea molto più preoccupata di proteggersi e mantenere le sue ricette di tagli e austerità piuttosto che risolvere le conseguenze umanitarie di una crisi dei rifugiati che altro non è se non una crisi politica e di diritti.
Oggi più che mai, in Europa sanguinano le frontiere e crescono i fili spinati. L’Unione Europea, infatti, sta rispondendo alla maggiore crisi di persone rifugiate della sua storia (e forse alla maggiore sfida degli ultimi decenni) alzando muri, costruendo centri di reclusione di massa e eliminando diritti e libertà ai nativi e ai migranti. Per tentare di comprendere e analizzare questa cosiddetta “crisi” dei rifugiati, in questo testo cercherò di esporre dieci punti fondamentali per capire come siamo arrivati a questo punto e come è stata affrontata questa crisi umanitaria e concluderò con una riflessione sull’Europa attuale e l’Europa per la quale dovremmo lottare.
1- I mezzi di comunicazione, dai primi di settembre dell’anno scorso, in concomitanza con l’aumento dell’attenzione mediatica sugli spostamenti di rifugiati, insistono su un’idea fondamentale: “Siamo davanti alla più grande crisi dei rifugiati dalla Seconda Guerra Mondiale”. Probabilmente oggi stiamo vivendo uno dei maggiori flussi migratori dalla Seconda Guerra Mondiale, non solo per lo spostamento forzato di più di cinque milioni di siriani e siriane (senza dimenticare gli afgani, gli iracheni, gli eritrei e i subsahariani che arrivano sulle nostre coste e frontiere), ma soprattutto per gli oltre sessanta milioni di rifugiati e sfollati che esistono nel mondo. Una cifra che è aumentata esponenzialmente negli ultimi anni. L’UNHCR ha evidenziato come nel 2014 13,9 milioni di persone siano state costrette a muoversi forzatamente dalla loro terra di origine, quattro volte di più che nel 2010, ma anche che la maggior parte di queste ha trovato protezione al di fuori delle frontiere europee. Ciò significa che l’affermazione “siamo davanti alla più grave crisi di rifugiati dalla Seconda Guerra Mondiale”, nonostante sia vera ed aiuti a comprendere la gravità del problema, non è nuova né è riferibile al numero di persone che arrivano nei ventotto Paesi membri dell’UE, dove sopportiamo un peso molto minore di domande di asilo rispetto alla popolazione se confrontata con i paesi mediorientali che hanno meno capacità tecnica ed economica per farlo. L’esempio libanese è paradigmatico: qui una persona ogni quattro è siriana e qui sono stati accolti un milione duecento mila rifugiati su una popolazione totale di poco più di quattro milioni di abitanti.
Nonostante sia dimostrato che l’Unione Europea si trovi molto al di sotto dei numeri di arrivo di altri paesi mediterranei, si sta diffondendo una falsa immagine secondo cui siamo invasi dall’arrivo dei rifugiati. Un’immagine di “straripamento” costruita dalle istituzioni europee che hanno preferito non prendere decisioni per affrontare tale emergenza, come la costruzione di campi stabili, l’apertura di un canale umanitario che permetta l’arrivo sicuro e legale o una strategia di soccorso marittimo, come quella realizzata dallo Stato italiano in passato.
L’unico obiettivo che l’Europa persegue è quello di affrontare l’arrivo di migliaia di persone da un punto di vista securitario con la chiusura delle frontiere.

La totale assenza di volontà politica nel ricercare soluzioni al dramma migratorio è evidente con particolare crudeltà nel Mediterraneo, specialmente nella rotta che separa la Turchia dalla costa greca. Quella che presumibilmente è la zona più controllata del mondo ha causato la morte di oltre 418 persone dall’inizio dell’anno. Proprio per questo, chi fugge da guerra e fame cercando di arrivare in Europa chiama il Mediterraneo il “paradiso”, per la quantità di gente che muore cercando di attraversarlo e perché, quando lo attraversi, pensi di essere all’inferno e l’unica cosa che ti rimane è di arrivare nel paradiso.
Ma lontano dalle coste la tragedia non sembra finire. Quotidianamente famiglie intere si accalcano nell’imbuto umano di Idomeni, nella frontiera tra Grecia e Macedonia. Come conseguenza della chiusura graduale della rotta balcanica occidentale, il nord della Grecia oggi è un immenso e improvvisato accampamento di rifugiati. Questa situazione ha prodotto una decisione senza precedenti da parte dell’Unione Europea: il primo piano di emergenza umanitaria in suolo europeo, destinato ad aiutare i rifugiati che in Grecia vivono in condizioni pessime.
Ma non ci lasciamo ingannare: non è che improvvisamente è sopraggiunta una crisi umanitaria come se fosse stata un improvviso ed inaspettato fenomeno naturale. È da più di un anno che migliaia di migranti cercano di attraversare giorno dopo giorno le frontiere europee. Sono l’inerzia comunitaria, il blocco istituzionale e l’assenza di volontà politica dell’Unione ad aver causato questa crisi umanitaria sul suolo europeo cui ora si tenta di rimediare con alcuni fondi di emergenza e negoziando un maggiore controllo da parte della guardia costiera o chiedendo aiuto al governo turco.
2- I paesi europei hanno deciso di affrontare la situazione dei rifugiati come una questione di vulnerabilità delle proprie frontiere. Da qui le leggi sull’immigrazione dei paesi membri hanno cercato di modificare l’immagine pubblica dei migranti, presentandoli come un problema e generando, così, la cornice politica e narrativa per la loro criminalizzazione. Queste normative hanno avuto un ruolo determinante nella diffusione di uno stereotipo negativo dei migranti sul quale si sono attivate e solidificate pregiudizi e retoriche dallo spiccato sapore xenofobo. La creazione ad ottobre 2004 dell’Agenzia Europea per la gestione delle frontiere esterne (Frontex), a seguito del Regolamento CE 2007/2004, ha portato a compimento l’approccio securitario sull’immigrazione e ha moltiplicato gli strumenti di controllo delle frontiere, mettendo così il definitivo tassello nella costruzione della Fortezza Europa. In questo modo l’Europa punta unicamente sul controllo militare e sull’aumento dei dispositivi di polizia nelle frontiere esterne. Ma il dramma non finisce con i controllo alle frontiere. Quando si superano i confini esterni bisogna costruirli all’interno: da qui tutta una legislazione finalizzata a “cacciare” ed espellere i migranti. In questo modo si produce una degradazione della sicurezza giuridica organizzata per espellere i migranti che ha, come prima conseguenza diretta, la perdita non solo dell’insieme di diritti, ma del diritto ad avere diritti.
Ciò comporta inoltre, come secondo risultato, la creazione di una mano d’opera facilmente sfruttabile dal punto di vista economico. Una mano d’opera che gli stessi stati hanno convertito in vulnerabile.
Negli ultimi tempi, inoltre, non solo abbiamo assistito alla criminalizzazione del migrante economico, ma dall’inizio della cosiddetta crisi dei rifugiati, anche il diritto d’asilo è stato minacciato. In questo modo, le istituzioni europee e gli Stati Membri ostinati nel rafforzare la Fortezza Europa stanno cercando di convertire paesi come la Grecia, la Macedonia o la Serbia in paesi tampone dei flussi migratori diretti verso l’Europa Centrale. In questo tentativo di ridurre i movimenti migratori valgono tutti i mezzi immaginari: creazione di veri e propri centri di detenzione, rimpatrio immediato e l’aumento del controllo alle frontiere. Utile è anche la differenziazione tra chi gode già di pochissimi diritti, tra rifugiati che ne hanno alcuni e altri migranti che ne sono completamente sprovvisti.

Nella pratica questo contribuisce a restringere la figura del rifugiato quasi esclusivamente ai siriani, senza tra l’altro che ciò garantisca loro di non perdere il diritto di movimento, reclusi in centri di internamento aspettando di essere accolti in altri paesi europei.

I restanti richiedenti asilo vanno ad ingrossare le fila dei rifugiati di seconda categoria: iracheni, afgani o eritrei per i quali il governo greco garantisce il rimpatrio al loro paese di origine. E affinché Atene si impegni in questo ruolo di Stato tampone, le istituzioni europee hanno utilizzato la classica strategia della carota e del bastone: flessibilità sul vincolo di bilancio o sul Patto di Stabilità se agisce come garante delle frontiere europee o espulsione da Schengen in tre mesi se si rifiuta di farlo.
Non è solo l’Ungheria, né solo la Danimarca, né tanto meno solo la Grecia né qualsiasi altro paese che nel tempo ha irrigidito la legislazione su immigrazione e asilo il nocciolo della questione. Il problema è la spirale di attacchi alle libertà, la deriva securitaria, di barbarie e di paura degli altri che si aggira per l’Europa. Libertà di circolazione violata, diritti basilari schiacciati, differenziazione tra migrati di serie A e di serie B, ricatti agli Stati membri per fargli svolgere il lavoro sporco alle frontiere. Tutto questo non è una somma di fatti isolati, ma una tendenza suicida.
Ma la realtà è testarda. I muri della Fortezza Europa non sembrano essere sufficienti per bloccare il dramma di migliaia di rifugiati politici e migranti economici che pretendono scappare dalle guerre e dalla miseria dei loro paesi di origine. Sfidano così quelle recinzioni, quei controlli e quei centri di detenzione che si sono convertiti in un’industria milionaria ma estremamente opaca che promuove la xenofobia istituzionale come un grande affare. Il paradosso, si trasforma così in un circolo vizioso: tanto più aumentano i controlli, quanto più bisogna controllare. Si produce così il miracolo della moltiplicazione dei controlli alla frontiera e con questi infuriano le dichiarazioni politiche e degli organi di polizia che pretendono legare insieme l’immigrazione irregolare con il crimine organizzato, il terrorismo e il traffico di essere umani.
Tutto ciò si aggiunge ad un’ulteriore tendenza che tenta di portare quei muri al di fuori del suolo europeo promuovendo una crescente esternalizzazione delle frontiere che riproduce vecchi meccanismi di dominazione in una sorta di neocolonizzazione che permette che altri facciano il lavoro sporco per noi. Ciò, naturalmente, senza nessun tipo di rispetto o considerazione per i diritti umani dei migranti, considerati per lo più moneta di scambio da parte di alcuni paesi desiderosi di poter negoziare con l’Unione Europea.
Invece di garantire un passaggio sicuro per migliaia di vittime che fuggono dalla guerra, l’Europa, con l’accordo con la Turchia, rinnega se stessa esternalizzando la gestione delle proprie frontiere e delegando ad altri i propri obblighi di accoglienza, ingaggiando la polizia turca in cambio di poco più di sei miliardi di euro e della riapertura della discussione sull’eventuale adesione della Turchia all’UE proprio nel momento in cui il governo di Ankara sta facendo enormi passi indietro rispetto ai vincoli democratici. Consegnando al Governo turco il ruolo di interlocutore privilegiato in questa crisi e il ruolo di salvagente di Schengen e di valvola di decompressione delle attuali tensioni interne, l’UE gli concede una legittimità internazionale e fa finta di nulla davanti alle continue violazioni dei diritti umani commesse in territorio turco. La svolta reazionaria di Erdogan viene legittimata e l’Europa si rende complice degli attacchi contro la libertà di stampa e di manifestazione, ma anche dei bombardamenti e degli assedi contro le città curde.
L’accordo della vergogna con la Turchia è lontano dal diritto internazionale e dalla normativa europea sui diritti umani o quella sull’asilo e l’accoglienza. Per questo motivo mentre si firmava l’accordo con la Turchia si incaricava il Presidente del Consiglio Europeo di adattarlo alla legislazione europea ed internazionale.
Ma anche se il testo riuscisse ad adempiere con il diritto comunitario rispondendo anche ambiguamente alla legalità internazionale, non sarà mai un accordo improntato al senso di giustizia. Non impedirà, infatti, l’arrivo di chi sfugge dalle bombe, ma innalzerà soltanto un’ulteriore barriera alle rotte migratorie provocando ancora più vittime. Altri muri costruiti non solo materialmente, ma soffiando sulla paura al diverso, allo sconosciuto che aumenteranno la distanza tra noi e loro. Muri che avranno l’unico merito di rafforzare le derive identitarie e il nazionalismo escludente. Muri che ravviveranno la paura e la xenofobia, vecchi fantasmi, che oggi, ancora una volta, si aggirano per l’Europa.
I cadaveri dei naufraghi delle carrette del mare, i morti nei deserti e il filo spinato alle frontiere sono l’espressione di un’altra forma di razzismo, quello istituzionale. Un razzismo dai guanti bianchi, anonimo, legale e poco visibile, ma costante nel costruire frontiere tra chi deve essere protetto e chi viene escluso da qualsiasi tipo di protezione.

Uno snaturamento della sicurezza giuridica organizzata con il fine di spezzare il migrante, affinché torni indietro o per lasciarlo senza diritti né garanzie, trasformandolo così in mano d’opera docile, facilmente ricattabile e sfruttabile grazie a politiche pubbliche che minano i diritti e li rende vulnerabili. Una strategia di esclusione della cittadinanza piena che cerca di rendere fragili i migranti contribuendo così a frammentare ancora di più l’intera popolazione. Un’operazione che ha la stessa sostanza e rafforza la guerra tra poveri, la lotta di classe tra gli ultimi e i penultimi, che premia la competizione tra autoctoni e stranieri per accedere a risorse sempre più scarse: il lavoro e i servizi sociali.
Dalle istituzioni europee e dai partiti dell’establishment quotidianamente partono allarmi per la crescita delle organizzazioni xenofobe e del razzismo. Nonostante ciò, queste istituzioni e partiti, invece di proporre politiche e misure in grado di combattere questi discorsi, accetta il terreno di scontro che propone la destra estrema assumendone gran parte dei postulati. Così facendo, normalizzano quel discorso e legittimano lo spazio politico che entrambi stanno costruendo.
È quello che in Francia viene chiamato da anni “lepenizzazione dello spirito” e che oggi coinvolge quasi tutto il continente. Come controprova è sufficiente guardare a come le istituzioni e i governi UE abbiano rafforzato sia le loro dichiarazioni sia la normativa sull’immigrazione che sull’asilo, nonostante la crisi umanitaria in cui ci troviamo. Gli esempi più noti sono sicuramente quello di un paese di transito come l’Ungheria o di un paese di accoglienza come la Danimarca. Purtroppo, però, non sono gli unici casi.
Ma la xenofobia istituzionale e questa operazione di esclusione di matrice economica non è l’unico brodo nel quale si allevano la xenofobia politica e sociale che oggi cresce in tutta Europa. Vanno segnalati anche gli sforzi permanenti per stigmatizzare la popolazione migrante, presentandola come un problema di ordine pubblico sia socialmente che istituzionalmente. In questo modo si facilita la xenofobia istituzionale e si giustificano le leggi e le misure regressive, ma si apre anche la porta ad una retorica populista punitiva, come hanno dimostrato le espulsioni dei rom in Francia o gli insediamenti come quello di Calais.
Una situazione (ricordiamolo: fabbricata politicamente, non un fenomeno meteorologico caduto dal cielo) che normalizza il discorso dell’estrema destra e le concede un pubblico di massa, specialmente nei settori delle classi medie e lavoratrici maggiormente colpiti dalla crisi economica.
Ma non tutto il merito è di chi contribuisce a seminare tutto questo. Bisogna riconoscere che i nuovi partiti postfascisti, neofascisti e populisti xenofobi hanno imparato molto rapidamente come raccogliere questi frutti. Capitalizzano politicamente la questione migratoria e le crisi umanitaria dei rifugiati, dando la colpa di qualsiasi forma di malessere sociale ai migranti, portatori secondo loro di un’alterità irriducibile e che, tra l’altro, competono al ribasso in un mercato del lavoro già in crisi.
Come ha scritto Vicenc Navarro qualche anno fa, “bisogna capire che è razzista non il più ignorante, ma il più insicuro. Ed è proprio questa insicurezza che spiega la crescita della destra e dell’estrema destra in Europa”. In questo senso, davanti all’insicurezza causata dall’assenza di lavoro, dalla perdita dei diritti e delle prestazioni sociali, si acuisce l’uso degli strumenti repressivi e penali come mezzo principale per risolvere i problemi di (in)sicurezza sociale.
Parallelamente, si costruisce un altro nemico cioè la povertà, ma l’obiettivo non è tanto porre fine alla povertà, bensì finirla con i poveri. In questo modo, siamo passati dall’assistere la povertà con lo Stato sociale a combatterla incrementando uno Stato di polizia che stigmatizza e criminalizza le persone impoverite. Dinanzi all’impossibilità di trovare rimedi all’insicurezza nata dalle politiche dei tagli e di austerità, dalla precarizzazione del lavoro e dalla perdita dei diritti e delle prestazioni sociali, si problematizzano fenomeni sociali come le migrazioni e la povertà. E si propone risolvere con il pugno di ferro: più polizia, più telecamere, più reclusi nelle carceri. L’UE si trova in guerra oggi contro l’immigrazione e contro i poveri in generale, una guerra fomentata per canalizzare il malessere sociale verso i settori più deboli, in modo da esentare le elites politiche ed economiche delle loro responsabilità rispetto all’espoliazione di risorse in atto.

Con questa insicurezza sociale, l’estrema destra identitaria configura l’immagine di un pericolo potenziale per l’integrità della comunità nazionale. Evidentemente una risorsa utilizzata spesso nella storia per rafforzare la coesione e assicurare così il consenso sociale. Una strategia che contribuisce a creare non solo un nemico su cui incanalare il malessere diffuso, ma anche una proposta in positivo: riconquistare l’identità, salvaguardare il concetto aggregante di “noi”. Una mobilitazione che supera così l’immediatezza della proposta e della reazione davanti all’inquietudine attuale con un progetto di largo respiro: ricostruire l’identità minacciata da pericoli che si costruiscono e rinnovano permanentemente, trasformandosi così in identità predatorie.
Vediamo quindi come si crea un populismo escludente e differenzialista che si appella esplicitamente alla discriminazione di settori sociali in base alla loro origine e appartenenza culturale e che penetra così profondamente nella società tanto da contribuire a giustificare la loro espulsione. Una restrizione del concetto della appartenenza nazionale o europea che attacca direttamente il concetto di protezione giuridica in relazione all’appartenenza o meno alla comunità, ponendo le basi programmatiche per la xenofobia politica del secolo XXI.
In un lapsus di sincerità, il commissario europeo all’immigrazione, Dimitris Avramópulos, ha affermato che viviamo in “un momento difficile per l’Europa, in cui il sogno europeo sembra definitivamente tramontato”. Ma più che in un sogno che si allontana siamo ormai dentro un vero incubo securitario che innalza muri tra chi deve essere protetto e chi può o, addirittura, deve essere escluso da qualsiasi protezione. Ma tutti questi rigurgiti identitari stanno mettendo a serio rischio uno dei pilastri dell’Europa unita: Schengen, che mai come oggi si trova in pericolo.
Di fatto, per comprendere come si è sviluppata la politica migratoria europea, che ha finito per creare la Fortezza Europa, dobbiamo retrocedere, anche se sembra paradossale, proprio fino alla nascita dell’Europa senza frontiere, cioè Schengen. Così facendo scopriamo come il primo passo verso una politica di gestione comune delle frontiere esterne risale al 14 giugno 1985, quando cinque sugli allora dieci membri CEE firmarono il Trattato di Schengen. Trent’anni dopo uno dei pilastri simbolici, ma anche economici dell’UE è in pericolo a causa della politica di chiusura delle frontiere esterne. Se veramente crolla Schengen, saremmo dinanzi alla fine del progetto europeo così come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi, e quello che potrebbe nascere dalle sue ceneri non è per nulla incoraggiante.
In verità, nonostante la deriva securitaria, autoritaria e xenofoba delle istituzioni europee avanza senza soste, non va dimenticato che si è sviluppato un movimento di cittadini che in tutta Europa che ha deciso alzare la bandiera della solidarietà con il motto “Welcome Refugees”. Dimostrando che oggi in Europa abbiamo una grande sfida, tra l’Europa fortezza costruita dai governi nei grandi summit europei che costa la vita a migliaia di persone e l’Europa dei volontari che si oppongono alla xenofobia istituzionale dei loro governi.

Un’Europa in guerra

I miti sono serviti storicamente a spiegare concetti complessi o per costruire verità edulcorate. L’Unione Europea è carica di miti dalla sua fondazione. Un mito che narra che sessant’anni fa l’Europa ha avuto un progetto: unirsi per non ripetere una storia fatta di esclusione, xenofobia e guerra. A quel progetto iniziale hanno aderito gradualmente nuovi membri (sei, dodici, quindici e così fino agli attuali ventotto Stati membri), così come nuove competenze, man mano che si aprivano le frontiere interne per i beni, i servizi, le persone ed i capitali. Un intero progetto costruito su solide basi di democrazia, solidarietà e difesa dei diritti umani dai cosiddetti “padri fondatori” (perché “madri fondatrici” non ce ne sono state, come se il progetto europeo fosse nato da una costola).
Ma oggi questa UE accoglie paradisi fiscali, auspica colpi di stato finanziari contro i suoi stessi membri e negozia a porte chiuse trattati di libero scambio come il TISA o il TTIP, dando le spalle agli interessi dei propri cittadini. Davanti alla sfida del cambiamento climatico, alla scarsità di risorse e alla rivalità con altre potenze emergenti, questa Unione Europea riduce i diritti del lavoro e le politiche sociali per competere al ribasso in un mercato globalizzato, mentre intensifica la sua aggressiva politica estera commerciale. E con l’obiettivo di garantire
la sicurezza e combattere il terrorismo si abbattono quei diritti e quelle libertà che il terrore vorrebbe distruggere.
Avevamo bisogno di più Europa e ci troviamo con più frontiere interne ed esterne. Avevamo urgente bisogno di tradurre in politiche concrete i valori della pace, della prosperità e della democrazie proclamati dai nostri miti fondatori, e vediamo crescere, invece, guerre, tagli e xenofobia in tutto il continente. Conosciamo già i risultati del combinato tra impoverimento, capitalismo selvaggio, intolleranza e nazionalismo. L’UE pretende essere figlia di quel vaccino contro questi fantasmi del passato. Figlia di un progetto che è nato come un sogno, ma che quando lascia i summit e le pompose dichiarazione degli emicicli, adotta la forma di un incubo crescente.
Quando l’austerità diventa nell’unica opzione politica ed economica di istituzioni lontane dagli interessi della cittadinanza, questa UE si trasforma in un problema per la maggioranza delle persone e quindi la costruzione di un’Europa differente emerge come l’unica soluzione alla deriva che viviamo.
L’Unione Europea ha oggi un progetto che poco o nulla ha in comune a quello sognato dai fondatori. Un progetto che oggi genera mostri e fa riemergere vecchi fantasmi. Sappiamo già come è finita quella storia. Per questo un cambio di rotta non solo è possibile e desiderabile, ma è anche urgente e necessario.
L’Europa non può continuare a vivere di miti, ma ha bisogno di una rottura democratica. Necessita di un Piano B. Oggi potrebbe nascere in Francia dove in maniera chiara è in scena la sfida in corso in Europa. Mentre continua ad esistere la pericolosa tendenza alla lepenizzazione degli spiriti, che ha fatto si che i partiti della V Repubblica abbiano accettato il terreno di scontro proposto dall’estrema destra e assunto buona parte delle tematiche lepeniste, legittimandone il discorso, è cresciuto, di contro, un forte movimento che è riuscito ad unire la protesta sindacale tradizionale con un nuovo attivismo che riempe le piazza francesi. Piazza dove riecheggia lo slogan “Welcome Refugees!”.

Trad. di Nicolas Liuzzi

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