Dichiariamo guerra alla violenza di genere.

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Pubblichiamo l’editoriale del collettivo Degender Communia sulle giornate del 26 e 27 novembre.

http://www.communianet.org/gender/dichiariamo-guerra-alla-violenza-di-genere

Una grande manifestazione il 26 novembre 2016 a Roma e un’assemblea il 27 testimonieranno la volontà femminista e lesbica di dire basta alla violenza sulle donne.
Non siamo le sole. Qualche anno fa in Spagna, e in tempi più recenti in Brasile, in Messico, in Argentina, in Polonia, in Inghilterra e in Irlanda, le donne hanno occupato con numeri eccezionali le strade contro la molteplicità delle violenze che ancora sono costrette a subire. Violenza sono infatti non solo gli stupri e gli omicidi. Violenza è costringerle all’aborto clandestino o causare la morte per obiezione di coscienza, come è accaduto qualche giorno fa a Valentina Miluzzo in Italia.
Violenze si consumano nelle migrazioni perché nei cimiteri marini del Mediterraneo sono sepolte un numero percentualmente maggiore di donne. Violenza ideologica è il “Fertility Day”, naufragato nel ridicolo, ma che sottintendeva una platea femminile inconsapevole, priva di elementari nozioni di biologia e ostacolata nel desiderio di maternità solo dall’ignoranza.
Ma c’è anche qualcosa che forse non sempre fa parte della coscienza del femminismo stesso. La violenza sulle donne è uno dei marchi più significativi lasciati sui corpi dalla natura dei rapporti di potere del nostro tempo.

Esiste ancora un senso comune che tratta le violenze con una certa indulgenza, che cerca e trova giustificazioni nelle scelte di vita delle vittime come se queste costituissero attenuanti per chi ha messo in atto una violenza. Per quanto ancora diffuso questo atteggiamento è culturalmente residuale perché l’informazione giornalistica meno volgare non ignora e non nasconde che la violenza è una reazione a un atto di libertà della donna, che nella sfera privata può equivalere a una scelta di separazione o di denuncia di maltrattamenti e minacce. Non nasconde che la violenza sulle donne ha anche a che fare con l’idea che si possa disporre del corpo femminile come di una proprietà. Contesta la narrazione dominante della violenza che induce a pensare che le cause della violenza siano l’amore o la follia o raptus improvvisi di origine ignota.
Comprendere il carattere culturalmente residuale del senso comune non significa affatto commettere l’errore di non considerare importante la decostruzione di stereotipi sessisti ancora largamente diffusi. Anche noi ribadiamo con forza che lo stupro non ha nulla a che fare con l’amore e il piacere e che è solo un atto dispotico di prevaricazione totale e di feroce spersonalizzazione delle vittime. Aggiungiamo tuttavia che non si può comprendere la violenza contro le donne, se non si comprende la logica complessiva dei rapporti di potere nel corpo sociale.

Sentiamo dire che la violenza contro le donne non ha classe e nazionalità e questo è vero se la si guarda dal lato maschile. Pregiudicati, aristocratici, professionisti e proletari possono diventare ugualmente violenti, quando la loro autostima viene destabilizzata da una scelta femminile di libertà. Il dominio sulle donne ha una storia troppo lunga, è troppo radicata nel corpo e nell’inconscio maschile, nella tradizione e nelle esperienze del presente perché un grado di cultura più elevato possa da solo cambiare le cose. Tanto più che la cultura accademica o mediatica offrono sul tema strumenti del tutto inadeguati o addirittura mistificanti.
Ma se dal lato maschile non c’è differenza, si deve constatare invece che le donne più esposte sono quelle travolte dalla globalizzazione, dal neo-liberismo, dal disastro ecologico e dalle guerre. Le donne che passano la frontiera tra l’America Latina e gli Stati Uniti nella condizione di clandestine e quindi già scomparse prima di scomparire come corpi violati; le donne che attraversano il Mediterraneo e vengono spesso soffocate dalla calca maschile verso la salvezza; le donne vittime due volte della guerra….
La violenza è fatta anche da leggi dello Stato, e le leggi dello Stato hanno a che fare con la classe. La crisi prodotta dal neo-liberismo e dalla dittatura dei mercati finanziari induce il capitalismo a mettere i propri affari nelle mani di destre razziste, sessiste e omofobe. Ma proprio gli attacchi frontali dei loro governi provocano straordinarie risposte femministe e lesbiche.

È il caso della Polonia, dove il governo di destra ha tentato di approvare una legge ancora più restrittiva sull’aborto, in un paese che oggi lo consente solo in condizioni estreme come il pericolo di vita per la donna, l’incesto o gravi malformazioni del feto. Il governo polacco ha dovuto fare una clamorosa marcia indietro dopo le manifestazioni oceaniche che hanno bloccato il paese. “Le manifestazioni ci hanno fatto riflettere e ci hanno dato una lezione di umiltà”, queste le parole di Jaroslaw Gowin, ministro della Scienza e dell’Istruzione superiore. Il nuovo disegno di legge portato in discussione alla Camera la scorsa settimana continuava a essere troppo limitativo per le donne che sono poi ritornate in piazza.
Vale in questo caso la pena di ricordare le parole di Audre Lorde: “Qualunque potere non usi tu stessa, sarà usato contro di te”. Il governo polacco, che voleva fortemente la legge al solo scopo di riaffermare la matrice conservatrice dello Stato, ha dovuto fare marcia indietro per l’atto di esercizio del potere da parte delle donne.
Il movimento polacco si configura come un’esperienza esemplare, che possiamo guardare con ammirazione e con il desiderio di creare le stesse condizioni anche qui, a casa nostra.

La Polonia non è un caso isolato in Europa. Ricordiamo le grandi mobilitazioni delle donne spagnole negli ultimi anni che hanno portato alle dimissioni del ministro della Salute Gallardon e al ritiro della proposta di legge che mirava a restringere il diritto d’aborto fino a renderlo impraticabile o peggio illegale. Da qui si è imposto lo slogan Yo decido! ripreso e usato come nome identificativo della rete di collettivi femministi romani Io decido! che, insieme alle associazioni di donne D.Ire (Donne in Rete contro la Violenza) e UDI (Unione Donne in Italia), ha promosso il percorso verso il 26 e 27 novembre.
La rete Io decido! ha voluto rispondere al tentativo delle amministrazioni di chiudere alcuni centri antiviolenza, presidi fondamentali sul territorio e frutto di decenni di lotta. In Italia sono 6 milioni e 888 mila le donne che hanno subito violenza nella loro vita e le donne uccise sono state 93 nei primi dieci mesi dell’anno. Per questo anche in Italia ci siamo messe in cammino e il 26-27 novembre animeremo due giorni di lotta straordinaria, sfileremo il 26 per le strade e saremo impegnate il giorno successivo in un’assemblea per fare un bilancio della nostra lotta e costruire insieme il progetto per un altro tratto di strada, che ci porti a riscrivere da un punto di vista femminista il piano nazionale contro la violenza sulle donne e a fare nuove esperienze.

Tra le nuove esperienze, nuove almeno per noi delle giovani generazioni, due ci sembrano fondamentali. Vogliamo che le donne si approprino delle strade perché, come spesso abbiamo detto, le strade sono rese sicure solo dalle donne che le attraversano. Provate a tornare indietro nel tempo o a pensare alla vostra vita ora, pensate per un momento a quando vostra madre o vostro padre vi hanno detto di non uscire di casa la sera, di non attraversare questa o quella zona, pericolosa per la vostra incolumità in quanto donne. A quando vi hanno impedito di essere libere per evitare che diventaste vittime. Pensate che invece non avete udito alcun avvertimento rivolto ai vostri fratelli, cugini o amici a cui nessuno ha prospettato la possibilità di essere essi stessi potenziali aggressori. Vogliamo fare l’esperienza di essere libere, di non restare chiuse nelle case mentre sono invece liberi gli stupratori, potenziali o effettivi. E vogliamo quindi discutere come costruirla insieme.
Una seconda esperienza ci sembra fondamentale. Dobbiamo far prendere coscienza ai nostri compagni, agli uomini che ci circondano e a quelli che vogliono affiancarci nella nostra lotta, di quanto anche loro abbiano inevitabilmente assorbito la cultura sessista e ne siano portatori. Dobbiamo ribattere, soprattutto agli uomini bianchi ed eterosessuali che si definiscono femministi che, per quanto si possano sentire impermiabili al patriarcato, continueranno a essere e a ricoprire ruoli privilegiati perché non sapranno mai che cosa significhi essere donna, vittime di oppressione e tutto ciò che questo comporta. Dobbiamo fare in modo che comprendano, come diceva la femminista inglese Kelly Temple, che se “vogliono essere femministi non hanno bisogno di ricevere spazio nel femminismo. Devono prendere lo spazio che hanno nella società e renderlo femminista.”

Il percorso che abbiamo intrapreso non si limiterà a discutere, manifestare e agire pratiche a proposito delle violenze. Proprio per lo stretto legame tra genere e classe, violenza e globalizzazione, neo-liberismo e ascesa di destre razziste, sessiste e omofobe, pensiamo che sia fondamentale oggi mettere al centro la condizione sociale delle donne. L’Italia non vanta certo una buona condizione dell’occupazione femminile.
La partecipazione delle donne al lavoro socializzato è tra le più basse d’Europa e soprattutto la crescita dell’occupazione negli ultimi decenni è avvenuta in stretta relazione con l’aumento della precarietà. Noi ne conosciamo e ne denunciamo da tempo la ragione principale: il lavoro domestico e di cura occupano gran parte del tempo femminile di vita. Eppure, malgrado le denunce, le cose non cambiano. Al contrario i tagli all’assistenza e alla sanità, il problema irrisolto degli asili nido, la crisi profonda del welfare rendono più difficile l’esistenza delle donne e il loro rapporto con il mercato del lavoro. Non è un caso che dal punto di vista della parità lavorativa l’Italia è al 114esimo posto della classifica mondiale per la presenza di donne in incarichi manageriali e terzultima in Europa. In termini di retribuzione a parità di ruolo, l’Italia si trova al 128esimo posto nel mondo, fanalino di coda rispetto agli altri paesi europei. Guadagnano in media il 6,9 per cento in meno dei loro colleghi uomini e fino al 10 per cento in meno nei settori impiegatizi. Questo avviene anche se le donne conseguono oggi livelli di istruzione, anche universitaria, maggiori di quelli degli uomini. Questo fenomeno è uno degli effetti virtuosi del femminismo e della volontà delle donne di conquistare un’indipendenza esistenziale a partire dall’indipendenza economica. Ciò non toglie che nel Mezzogiorno d’Italia meno di una donna su tre è occupata.

C’è un solo modo di smettere di avere paura: quel modo è lottare.
Quando ci sono stati gli attentati di Parigi, moltissime figure pubbliche e capi di governo hanno detto a chiare lettere di non avere paura, hanno esortato a continuare ad uscire per le strade e continuare a condurre la vita normalmente. Non potevamo permetterci di avere paura e di darla vinta al terrorismo.
Mai sentirete le stesse parole spese per i morti di Orlando, uccisi barbaramente in un locale frequentato soprattutto da gay. Mai sentirete le stesse incitazioni rivolte alle donne. Noi facciamo bene a nasconderci, secondo il loro parere.
Non sentirete mai non abbiate paura e uscite per le strade e lottate per non darla vinta al patriarcato e all’omofobia.
Noi donne, migranti, lesbiche, transessuali, non abbiamo paura e nel mondo stiamo dichiarando guerra alla vostra guerra, ma per farlo non uccideremo popolazioni innocenti, non massacreremo città, ospedali, non alimenteremo altra violenza. Lo faremo estirpando alla radice quelle strutture su cui si reggono la violenza di genere e l’omofobia. Continueremo a cercare e creare conflitto finché non rovesceremo i rapporti di forza e finché tutto questo non cambierà. La nostra dichiarazione di guerra si chiama rivoluzione sessuale, culturale e economica e sociale.
Ci autorganizzeremo in quanto donne, precarie, lesbiche, transessuali migranti e spazzeremo via ogni forma di oppressione… NON UNA DI MENO! grideremo forte come fanno le donne che attraversano le strade in Brasile, in Argentina e in ogni altra parte del mondo.
Ci opporremo come stiamo facendo in questi mesi a ogni chiusura dei centri antiviolenza, sfideremo le amministrazioni che verranno con presidi, cortei, assemblee e tutto quello che sarà necessario affinché non solo queste esperienze restino in vita, ma siano un esempio reale per far sì che si moltiplichino in ogni luogo e in ogni quartiere.
Consapevoli che la chiusura di questi spazi in cui le donne assumono coscienza del proprio vissuto rappresenta da parte delle istituzioni un atto di violenza contro le donne.

La violenza di genere è un problema culturale, politico sociale ed economico, ha fattori psicologici, culturali e simbolici, ma non solo. Pesano anche le condizioni materiali di esistenza che crescono d’importanza man mano che la crisi si drammatizza e imbarbarisce le relazioni sociali e la politica.
Occorrono obiettivi seri e praticabili: pensare a forme di sostegno economico per le donne che denunciano la violenza. Far sì che le case rifugio siano oasi di felicità da ritrovare piuttosto che micro stanzine dove sopravvivere. Occorre introdurre soluzioni economiche significative per le donne e anche per i minori che le accompagnano. Lottare per la parità salariale.
Ci batteremo affinché nel servizio sanitario pubblico non sia prevista più la figura degli obiettori di coscienza. Proseguiremo la lotta per una legge più giusta che possa operare nella sicurezza e nella tutela di tutte le donne. Proseguiremo la lotta per la libera scelta e contro ogni tentativo di ostacolare l’autodeterminazione delle donne.

Lotteremo ancora, lo faremo portando nel cuore Valentina Miluzzo, morta di obiezione di coscienza. E con lei tutte le altre vittime di violenze e femminicidi, continuando a gridare che non siamo disposte a camminare senza le nostre sorelle.

NON UNA DI MENO!
Il 26 e 27 Novembre sono solo l’inizio….
Nella convinzione che nessuno sarà libero finché non saremo tutte libere!

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